Agricoltura verticale e fabbisogno energetico
Lodata per la sua capacità di produrre grandi quantità di cibo, l’agricoltura verticale porta con sé notevoli problemi legati all’impronta carbonica
Abbiamo dedicato molti articoli all’agricoltura verticale, tecnica di coltivazione che sta prendendo sempre più piede. L’idea è, allo stesso tempo, semplice e rivoluzionaria: se su un acro di terreno è tradizionalmente possibile coltivare solo un acro di insalata, perché non utilizzare la stessa estensione disponendo le piante su più livelli, in modo tale da poter sfruttare una superficie coltivabile ancora più ampia?
Il movimento degli orti urbani ha colto al volo questo suggerimento. Sono infatti sempre di più gli imprenditori e le start-up che convertono in fattorie dei magazzini caduti ormai in disuso. Grazie alle tecniche dell’agricoltura verticale, diventa così possibile produrre grandi quantità di cibo rivendibili sul mercato locale.
Le piante vengono normalmente cresciute attraverso l’impiego dell’idroponica o dell’aeroponica: in questo modo si ottimizza tutto il processo produttivo. Il raccolto è molto più veloce di quello ottenuto con tecniche tradizionali. E, soprattutto, viene ottenuto in modo responsabile, con un impiego minimo – o addirittura nullo – di fertilizzanti e pesticidi.
In breve, l’agricoltura verticale sembra essere il modo migliore per nutrire una popolazione planetaria in continua espansione.
Forse, però, non è tutto oro quel che luccica.
A suggerirlo è Tamar Haspel, editorialista del Washington Post, che ha recentemente analizzato il fenomeno dell’agricoltura verticale per capire quali reali benefici sia in grado di apportare.
Se, da un lato, i vantaggi sono innegabili e sotto gli occhi di tutti, dall’altro la Haspel ha sottolineato tutta una serie di aspetti negativi che spesso vengono sottovalutati.
In primo luogo, quelli legati all’impronta carbonica lasciata dalle coltivazioni basate sull’agricoltura verticale. «Se coltiviamo alla vecchia maniera» scrive la giornalista americana «possiamo approfittare di una fonte di energia affidabile e libera: il sole. Questo non accade se decidiamo invece di coltivare indoor. In questo caso, infatti, la questione da tenere in considerazione è quella della quantità minima di luce necessaria alla crescita delle piante. O, in altri termini, il consumo energetico necessario all’agricoltura verticale».
Tamar Haspel ha così intervistato Louis Albright, direttore del programma Ambiente/Agricoltura della Cornell University. Ne è emerso che la coltivazione indoor di un chilogrammo di lattuga richiede la produzione di quattro chilogrammi di anidride carbonica. E questo solo tenendo conto della produzione di luce grazie alle lampade a LED. Spesso, infatti, le fattorie verticali necessitano di ulteriori consumi energetici, dal momento che impiegano sensori per il controllo dell’umidità e della temperatura.
Per l’agricoltura verticale è quindi la fine?
La risposta è no. La forte impronta carbonica continua infatti a compensare i notevoli risparmi in termini di consumi idrici o di assenza di pesticidi.
Perché l’agricoltura verticale possa però davvero diventare la risposta ai problemi della sovrappopolazione mondiale, è necessario continuare ad investire in ricerca. Solo attraverso questa via sarà possibile introdurre nuove tecnologie, in grado di ridurre ulteriormente i consumi energetici.
Fonte: The Washington Post